CONSIGLI ALLA LEGA DA MASSIMO FINI

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INES TABUSSO
00giovedì 29 giugno 2006 20:49


LA PADANIA
29 giugno 2006
La Lega recuperi autonomia. Torni a dialogare con tutti ma a sinistra troverà solo conservatori
L’ITALIA NON CAMBIA, RIPARTIAMO DAL PROFONDO NORD

La Lega recuperi autonomia. Torni a dialogare con tutti ma a sinistra troverà solo conservatori
carlo passera

Massimo Fini, “Il sì che la sinistra non vede”, titola la Padania. Ossia: nonostante condizioni assai avverse, nonostante tutto e tutti, il profondo Nord ha espresso per l’ennesima volta un chiaro desiderio di cambiamento.
«Questa è l’Italia leghista, quella che vuole riformare il Paese. Oggi si trova però accerchiata, dopo la grande espansione dei primi anni Novanta. C’è uno zoccolo duro, purtroppo minoritario».
A cosa è dovuto questo arretramento?
«A più fattori. Il primo deriva non da un errore, ma da una necessità: il sistema bipolare-maggioritario ha costretto la Lega... ...a schierarsi. Ma il Carroccio è un movimento assai marcato, con una forte identità, di gran lunga superiore a quella di tutti gli altri, Rifondazione Comunista compresa: così, alleandosi con altri partiti, è quello che ci perde di più. In questo senso il patto con Berlusconi dunque non ha aiutato, ma sarebbe stata la stessa cosa se si fosse guardato dall’altra parte, a sinistra. Entrare in qualsiasi polo significa rinunciare ad alcune idee forti della Lega, come l’indipendentismo, l’anti-globalismo, un certo anti-americanismo, un certo anti-vaticanismo. È rimasta solo l’identità federalista, declinata nella devolution, ma anche questa in qualche modo annacquata per ragioni di compromesso. Poi, c’è un altro dato, più generale».
Quale?
«L’Italia è un Paese che pervicacemente non vuole cambiare, perché in un certo senso sta troppo bene così, almeno una sua parte. Ci sono le oligarchie politiche ed economiche che sono soddisfatte; c’è una fetta cospicua del Sud che si è abituata a essere sostenuta dall’esterno e che vive del voto di scambio coi politici. In generale, si assiste all’inerzia del popolo italiano, privo di energia se non per il malaffare più mediocre: la corruzione, il giro di denaro. Non c’è neppure più la vitalità del grande criminale».
Gli italiani non vogliono cambiare. Né ora né mai?
«Qualche possibilità in più ci sarà il giorno in cui la crisi economica si facesse ancor più profonda. Allora davvero una riforma potrebbe riuscire, per adesso è invece solo acqua stagnante. Del resto lo si vede anche nel mancato ricambio delle classi dirigenti. L’altro giorno a Porta a Porta assistevo a un dibattito, due di qua e due di là: erano gli stessi di sempre, ospiti da Vespa da dieci anni, solo si erano scambiati i rispettivi ruoli».
Se il quadro è questo, le ventitré province “eroiche” dove ha vinto il sì possono essere un nuovo punto di partenza sia per le riforme sia per chi le incarna, ossia la Lega Nord? Oppure sono, al contrario, una retroguardia in difficoltà, che verrà a sua volta spazzata via?
«Io credo che il tema identitario portato avanti dal localismo leghista vada oltre le vicende contingenti. Ma sono problematiche storiche che si affermano nei tempi lunghi, non potranno che aumentare di forza man mano che la globalizzazione prenderà piede, non sono questioni che garantiscono risultati nell’immediato. Credo poi che la chance leghista, perduto il governo, sarà quella di tornare a una propria autonomia. In fondo con Udc e An non ci sono veri legami, mentre con Berlusconi c’è più un rapporto di amicizia personale che unisce i due leader (gli unici leader espressi dall’Italia in venti anni di politica), mentre le aspettative profonde dei movimenti da loro guidati sono completamente diverse. Di più: la Lega Nord ha degli obbiettivi concreti, Forza Italia proprio non so. Poi trovo che sia davvero enorme la discrepanza tra i vari Cicchitto e Bondi da una parte, l’elettorato leghista, ma anche Mario Borghezio dall’altra...».
Eppure per cinque anni c’è stata una totale condivisione, un asse del Nord, come è stato scritto.
«Un miracolo. C’è voluta tutta la forza carismatica di Bossi».
Una Lega che recupera autonomia rispetto alla Cdl, tornando a marcare la propria identità forte a fronte della mediocrità altrui, dovrebbe pensare a uno “splendido isolamento”, che rischia di essere sterile, o porsi come “jolly” accettando di volta in volta patti con l’uno o l’altro polo, finalizzati a ottenere obiettivi concreti?
«Io farei innanzi tutto una battaglia per tornare al proporzionale, e su questo si troverebbero molti alleati. Poi, col nuovo sistema elettorale, il Carroccio non solo potrebbe recuperare la propria identità, ma avrebbe le mani molto più libere. Non è detto che un movimento localista debba essere necessariamente di destra; ricordo che alle elezioni padane c’era anche un Partito comunista, era il segnale che la Lega non si schierava con la destra o la sinistra, ma voleva altre cose, era al di là degli schieramenti tradizionali. Ecco, io vedo questa prospettiva, che è però possibile solo tornando al proporzionale. In quel caso davvero il Carroccio potrà di volta in volta stringere un accordo con chi si dimostra più disponibile nel sostenere la causa dei federalisti. Stando però attenti ai gattopardi...».
...che sono sempre in agguato.
«Già. Abbiamo visto che le idee, anche quando riescono a sfondare, vengono assunte da tutti e quindi annacquate. È un vecchio sistema che ci porta oggi a pensare che nulla potrà davvero cambiare. Lo dico per esperienza personale: nella mia vita ho quasi sempre perso tutte le battaglie, quelle volte che le ho vinte è andata anche peggio, perché mi sono subito trovato scavalcato dagli opportunisti dell’ultim’ora, che con operazioni di trasformismo rapide volevano rendere innocuo il tutto. Bossi ha ragione quando dice che gli italiani fanno schifo».
L’ha detto Speroni per la verità.
«Mi spiace che non l’abbia fatto anche Bossi. Gli italiani fanno schifo non tanto per l’esito del referendum, ma per altri motivi. Sono diventati un popolo di tangentisti, truffatori, mafiosi, omuncoli che non sanno conquistare le donne se non facendo leva sul potere, personaggi che rubano nei cimiteri, sugli aiuti al Terzo Mondo, che taroccano le medicine...».
Gran brutta storia.
«È una bruttissima Italia, poi si pensa di riscattarla vincendo qualche partita al Mondiale, tra l’altro rubandola come abbiamo fatto contro l’Australia... In un Paese del genere la gente di passione - e vi inserisco la gran parte dei leghisti - non potrà che perdere sempre».
Torniamo indietro un momento. Prima tu ipotizzavi una Lega “battitrice libera” tra i poli. In questo, sarebbe forse più simile a molti movimenti indipendentisti e autonomisti d’Europa, che a volte sono a sinistra (penso alla Spagna), raramente a destra, perlopiù “al di sopra”.
«In tutti i casi, sono concettualmente movimenti al di sopra della destra e della sinistra, sempre. In fondo contestano uno dei prodotti della modernità, lo Stato nazionale, difeso da entrambi i poli. Poi, certo, a volte devono trovare compromessi con questa realtà, penso ai baschi. Ma è ovvio che loro starebbero per conto loro, se solo potessero. Come anche i còrsi, e forse sono gli unici che ce la faranno»
In Italia, una Lega che tornasse a guardare anche a sinistra non troverebbe però come interlocutore uno Zapatero che concede enorme autonomia alla Catalogna, e non solo, né un Blair che avvia il processo di devolution in Scozia e Galles. No, avrebbe a che fare con Prodi! Con una sinistra che smentisce la propria storia, negando il federalismo.
«Sono d’accordo, è purtroppo vero, questa è un’altra delle anomalie italiane. La nostra sinistra, anche quella più radicale e apparentemente rivoluzionaria, è profondamente conservatrice. È legata in modo imprescindibile a idee di due secoli e mezzo fa. O al mito della resistenza. Non si è mai svincolata da questo, è a mio avviso anche la causa della sua scarsissima incidenza nel Paese. Viene dominata da una sorta di gigantesca Democrazia cristiana non dichiarata, e molto peggiore dell’originale poiché spalmata su tutto. È quasi impossibile combatterla, perché sta ovunque, è senza nome ed esprime il peggio dell’Italia, l’opportunismo e il tirare a campare. Paradossalmente proprio qui sta la mia speranza».
Pardon?
«Sì. Perché è tutto ciò porta, in genere, ai crac più clamorosi. Guardiamo la Seconda guerra mondiale: a furia di fare i furbi siamo ci siamo ridotti alla guerra civile».
L’impressione è che oggi la sinistra sia, al di là delle chiacchiere, ancor meno attenta ai temi dell’autonomismo di quanto fosse venti, trenta anni fa.
«Certo, perché essendo la loro identità radicata in quei valori antichi che dicevamo, più questi ultimi perdono forza, più la sinistra diventa incapace di aprirsi a qualunque tipo di nuovo, non solo a quello leghista».
Ma se la sinistra è miope e paralizzata, con An e Udc la Lega non c’azzecca e Forza Italia non si sa che voglia fare, come uscirne “vivi”? Ripartiamo, come dicevamo, dal Nord, da queste 23 province? Vedi una Lega che segue il “modello bavarese”, diventando così forza di riferimento territoriale?
«No. Certamente bisogna ripartire dallo zoccolo duro, ma nello stesso tempo intraprendere con pazienza quel lavoro che nel 1992-94 non venne svolto. Ossia: la storia dell’unità d’Italia ci dice che a finire danneggiato è stato molto più il Meridione che il Settentrione (solo a un certo punto il Sud è diventato parassitario, un “peso”): basti pensare alla prima emigrazione. Il Mezzogiorno è stato depauperato delle sue energie migliori, colonizzato con le famose “cattedrali nel deserto”, non gli è stato consentito di progredire secondo le proprie vocazioni, magari di svilupparsi meno ma in modo diverso. Ecco: io credo che sia importante dialogare con la gente di quelle terre, che non ha voglia di essere eternamente parassitaria e di rimanere dunque sotto il continuo schiaffo della mafia, della camorra e del potere politico. È certamente un lavoro lungo, ma che secondo me può avere buon esito».
Sarà anche un lavoro lungo. ma anche la buona affluenza al voto sul referendum conferma come in Italia non manchi attenzione per queste tematiche. È paradossale: notoriamente gli italiani hanno poca educazione civica e attenzione nei confronti delle istituzioni, eppure continuano a votare in massa.
«Io non so se è passione politica o una sorta di abitudine. Quando ero un ragazzo mio padre mi portava in piazza Duomo, là c’erano sempre capannelli di persone che discutevano di due argomenti: la politica e il calcio. Ma ora? Mi sembra che sia più che altro un’abitudine: “Bisogna andare a votare”. Ma ho davvero molti dubbi se qualcuno sostiene che la vittoria del “no” deriva dalla passione degli italiani nel difendere la Costituzione. Se così fosse, dovrebbero difendere ancor prima la loro dignità e l’onore perduto, non trovi? Invece non riescono più a indignarsi per vicende di eccezionale gravità: è mai possibile che uno non possa sostenere un concorso alla Forestale, o all’Enel, senza essere scavalcato dal raccomandato di turno? Invece nessuno si infuria».
Spiegaci perché.
«O sono rassegnati, o non hanno la capacità di indignarsi, o la maggioranza della popolazione si regge su questo meccanismo, è connivente. E se ne conclude che questo Paese si regge sul lavoro di pochissimi. Quando ero all’Europeo, storico settimanale, si davano da fare venticinque giornalisti su cinquanta. Quando me ne sono andato, dopo qualche anno, eravamo dieci su cinquanta, perché la mela marcia guasta anche quella buona, prevale il “chi me lo fa fare. Sto anch’io al gioco, mi godo i piccoli privilegi che riesco ad accaparrarmi”, senza rendersi conto che tutto questo alla fine si paga».
Val la pensa ricordare che l’Europeo, sarà un caso, è fallito.
«Certamente. Queste realtà alla fine non reggono. Ma il fatto è questo: la parte sana del Paese sembra restringersi sempre di più».
Prima dicevi che anche l’Italia “leghista” si è ristretta. C’è un parallelo logico, una possibile sovrapposizione?
«Direi di sì. Domina ormai il cinismo roman-andreottiano, del quale si è circondato anche uno come Silvio Berlusconi: cos’è infatti Gianni Letta, se non questo?».
O Francesco Rutelli dall’altra parte.
«Certo. Centrodestra o centrosinistra, stessa cosa. C’è un’enorme palude, quell’enorme Dc della quale parlavo. La sera, nei vari salotti, coloro che di giorno han fatto finta di combattersi si ritrovano fianco a fianco. Io credo si facciano l’occhiolino, perché sanno di aver vinto alla lotteria: non lavorano, hanno potere, il casino Rai a disposizione con le più belle ragazze d’Italia, una serie di privilegi infiniti... Per molto meno si è fatta la rivoluzione francese. Ma Roma ha una capacità straordinaria di ammorbidimento e corruzione, per la sua storia. Là sono convinti che tanto nulla mai cambierà, la loro posizione di privilegio rimarrà comunque. Giulio Andreotti non è uno stupido, è l’eterno gattopardo. Non a caso - il Signore gli dia ancora lunga vita - è sempre lì».
Ultima cosa. Tu, da questa situazione incancrenita, prefiguri vie d’uscita che necessitano di tempi lunghi. Non credi, dunque, alle riforme? Il voto referendario le ha sepolte per sempre, o per parecchio tempo?
«Se ci sarà un momento di vera riforma, non verrà da voti referendari o del Parlamento. Saranno moti di piazza. In fondo l’ha detto anche Bossi: coi meccanismi democratici l’Italia non cambierà mai. Però nella storia sono esistiti anche meccanismi non democratici... Solo la crisi economica, se inciderà di più, potrà dare una sveglia agli italiani. Che altrimenti si accontentano di gioire di fronte alla nazionale di calcio che elimina l’Australia, dico l’Australia, con un rigore inventato, al 50° minuto della ripresa. Perché questa è la verità: tutti in piazza, tutti soddisfatti... Non c’è possibilità di autoriforma. Il nostro popolo è molto diverso da quello degli anni Cinquanta, quando esisteva un’Italia mite e in fondo onesta. Siamo imbruttiti, preda della volgarità, della maleducazione. A noi il benessere non ha proprio fatto bene».
Viene in mente Pasolini.
«Certo, il suo discorso è straordinariamente attuale. Pasolini aveva centrato il problema già trent’anni fa, ora è diventato anche più grave. E, ancor peggio, mancano anche i Pasolini che possano denunciarlo o, se ci sono (io lo faccio nei miei libri) non hanno la sua forza, non per incapacità ma perché i Pasolini non sono più consentiti. Lui scriveva sul Corriere della Sera, se rinascesse dovrebbe accontentarsi de l’Eco di Canicattì, con tutto il rispetto».
c.passera@lapadania.net


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