Giovanni Boccaccio

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Soga
00martedì 15 novembre 2005 18:36
Realtà e leggenda si uniscono nella vita di Giovanni Boccaccio.





Giovanni Boccaccio nasce tra il giugno e il luglio del 1313, a Firenze o a Certaldo in Valdelsa, figlio illegittimo del ricco mercante, dipendente e poi socio del Banco dei Bardi, Boccaccino di Chellino. Leggendaria è la notizia della sua nascita a Parigi da una nobildonna di stirpe principesca.

Dopo aver ricevuto i fondamentali insegnamenti grammaticali e letterari, verso il 1327-'28 viene mandato dal padre a far pratica bancaria a Napoli, nella succursale dei Bardi: la compagnia fiorentina che insieme ai Peruzzi e agli Acciaiuoli detiene il monopolio delle imprese finanziarie del Regno di Roberto d'Angiò. Questo apprendistato mercantile e bancario si rivela un totale fallimento. Per sei anni non fa altro che sprecare tempo in un'attività per lui odiosa; sempre per volontà paterna ripiega sul diritto canonico, frequentando le lezioni di Cino da Pistoia (noto maestro di diritto e famoso rimatore stilnovista, amico di Dante e Petrarca), ma vi perde circa altri sei anni. Così finalmente abbandona gli studi ingrati, e da autodidatta, leggendo sia i classici sia la contemporanea produzione romanzesca cortese, si dedica interamente e avidamente alla poesia, a cui «un'antichissima disposizione dello spirito lo faceva tendere con tutte le sue forze».

La sua formazione intellettuale e umana si compie dunque nel più importante centro culturale italiano: lo Studio (Università) napoletano, la ricchissima biblioteca reale e la stessa raffinata corte angioina si configurano come punto d'incontro tra la cultura italo-francese e quella arabo-bizantina, attirando da ogni parte poeti, letterati, eruditi, scienziati e anche artisti come Giotto, che in quegli anni sta lavorando agli affreschi del Castel Nuovo. Questo vivace mondo culturale, l'aristocratica, elegante e gaia società della corte, gli svaghi, i diletti e gli amori di questi anni spensierati e felici si intravedono nella sua prima produzione letteraria, ispirata dall'amore per la leggendaria Maria dei conti D'Aquino, figlia illegittima del re Roberto d'Angiò: le Rime, la Caccia di Diana, il Filostrato, il Filocolo, il Teseida (terminato poi a Firenze).

Nel 1340-'41, in seguito al fallimento della Compagnia dei Bardi, richiamato dal padre torna a Firenze a una vita di ristrettezze economiche. Compone la Commedia delle Ninfe Fiorentine (1341-'42), l'Amorosa visione (1342), l'Elegia di madonna Fiammetta (1343-'44), piena di rimpianto per il mondo napoletano, ed infine il Ninfale fiesolano (1344-'46).

Soggiorna a Ravenna, alla corte di Ostasio da Polenta (1345-'46); e poi a Forlì, al seguito di Francesco degli Ordelaffi (1347-'48). Rientrato a Firenze, nel 1348 assiste agli orrori e alla tragedia della peste (durante la quale perde il padre), poi rievocata nell'opera che rappresenta il culmine della sua esperienza creativa, il Decameron (1349-'51).

Grazie alla sua fama letteraria riceve da parte del Comune di Firenze importanti e onorifici incarichi ufficiali, come le ambascerie in Romagna (1350), presso Ludovico di Baviera (1351), e presso i papi Innocenzo VI (1354) e Urbano V ad Avignone e a Roma (1365, 1367). Nel '50 è inviato a Ravenna per consegnare alla figlia di Dante, suor Beatrice, un simbolico risarcimento per l'esilio del padre. Nel '51 si reca a Padova dal Petrarca per restituirgli il patrimonio familiare confiscatogli dal Comune, e per offrirgli una cattedra del nuovo Studio.

Dopo la composizione del Decameron, inizia un periodo di ripiegamento spirituale e di vocazione meditativa. Boccaccio si dedica appassionatamente allo studio dei classici, scambiando testi antichi col Petrarca, a cui è inoltre legato da un'affettuosa amicizia. Diffonde in Italia e in Europa le più recenti e mirabili scoperte di codici e opere letterarie (Varrone, Marziale, Tacito, Apuleio, Ovidio, Seneca). Nel 1359 fa istituire presso lo Studio di Firenze la prima cattedra di greco, assegnandola a Leonzio Pilato, a cui commissiona anche la traduzione dei poemi omerici. Nell'ambito di questa ampia attività filologico-erudita di tipo umanistico si collocano i suoi repertori sulle divinità classiche (De genealogiis deorum gentilium), sulla geografia (De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris), sulle più illustri figure femminili (De claris mulieribus), e maschili (De casibus virorum illustrium).

Nel 1355 o nel 1365 compone il Corbaccio. Forti scrupoli morali lo portano a meditare persino la distruzione del Decameron , ma il Petrarca in una lettera del 1364 lo dissuade, invitandolo a riflettere sui valori spirituali dell'attività letteraria. Dopo aver ricevuto gli ordini minori, nel 1360 ottiene da papa Innocenzo VI l'autorizzazione ad aver cura di anime; e l'anno successivo, si ritira a Certaldo nella casa paterna, in cui crea con Filippo Villani, Luigi Marsili e Coluccio Salutati un centro di cultura umanistica.

Nel 1362, e poi ancora nel 1370, si reca a Napoli nella speranza di trovarvi una decorosa sistemazione, ma entrambe le volte torna a Certaldo deluso e amareggiato. Nel 1373 riceve l'incarico da parte del Comune di Firenze di commentare pubblicamente la Commedia di Dante nella chiesa di Santo Stefano di Badia, ma dopo pochi mesi, essendo sofferente di idropisia, è costretto a rinunciare alle sue pubbliche letture, interrompendole al canto XVII dell'Inferno.

Stanco, malato e angustiato dalle solite ristrettezze economiche, si ritira a Certaldo, dove muore il 21 dicembre 1375, un anno e mezzo dopo il suo amico Petrarca.
Soga
00venerdì 18 novembre 2005 19:16
Introduzione al Decameron.
Nell'autunno della civiltà medioevale italiana (XIV secolo) crollano le aspirazioni, sia dell'Impero sia della Chiesa, a dominare il mondo. Nel Comune «fermenta già la Signoria» e l'instabilità della società mercantile si rivela in alcuni clamorosi fallimenti. Il Boccaccio è reduce egli stesso dal fallimento della Compagnia Bancaria dei Barbi di cui il padre è socio. Senza smarrirsi e senza provare rimpianto per il vecchio mondo perduto, insieme alla sua lieta brigata fugge metaforicamente dalla peste e dalla morte del Medio Evo, e con uno spregiudicato e gioioso senso di liberazione da ogni antica norma religiosa e trascendente, sembra inaugurare la civiltà umanistica.

Nel Decameron, scrisse il De Sanctis, «La vita sale sulla superficie e vi si liscia e vi si abbellisce. Il mondo dello spirito se ne va: viene il mondo della natura». L'intera vita, l'intera «umana commedia», senza esclusioni, viene accolta in quest'opera che appare unica, senza precedenti nella narrativa italiana ed europea. Boccaccio non si propone alcuna finalità morale, edificante o dimostrativa come avveniva nella tradizione narrativa dell'exemplum o nel poema di Dante, ma con costante atteggiamento realistico restituisce, ricrea, fa vedere e fa sentire sulla pagina quanta più realtà, quanta più azione possibile, in tutta la sua multiforme e concreta totalità.

L'oggetto della sua passione è l'uomo; e dell'uomo rappresenta le doti e le capacità del saper vivere a confronto con le principali forze che muovono l'umanità: l'amore, l'ingegno, la fortuna. In una dimensione tutta terrena e laica gli uomini nel Decameron, ignorano il dramma del peccato, così come è inteso da Dante e Petrarca, e divengono artefici responsabili della propria vita solo di fronte a se stessi, non più di fronte a Dio.

Agiscono inoltre spinti dall'amore che, sia come pura e semplice passione carnale, sia come elevato sentimento, viene legittimato e non più demonizzato, in quanto forza tutta naturale e terrena. Ai suoi denigratori e censori il Boccaccio stesso risponde che «alle cui leggi [cioè della natura] voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano ma con grandissimo danno del faticante s'adoperano».

La loro guida è l'intelligenza, intesa come sapiente, pronta, energica e sagace capacità e volontà di dominare se se stessi e la realtà, di agire e reagire, anche con la sola parola, in tutte quelle imprevedibili o casuali circostanze, che sorprendono la vita, e che il Boccaccio chiama Fortuna. Forza della natura, evento storico, o causale e di per sé insignificante avvenimento, la Fortuna nel Decameron si configura assolutamente terrena e laica rispetto alla celeste, soprannaturale e provvidenziale «general ministra e duce» delle cose umane, propria della tradizione culturale medioevale e dantesca.

Così, per la prima volta nella letteratura europea, dopo il dorato mondo dei cavalieri, irrompe in queste cento novelle, con tutta la sua esuberante e ricchissima vitalità, la civiltà italiana dei mercanti (da Dante disprezzata e da Petrarca ignorata) che, da veri «eroi dell'intraprendenza e della tenacia umana», tra Duecento e Trecento, muovono alla conquista dell'Europa e dell'Oriente. Gli ideali e i gusti della nuova aristocrazia borghese fiorentina (aristocrazia non più di sangue, come nell'antico mondo feudale, ma di spirito), scorrono all'interno di questa immensa e suggestiva galleria in cui è ritratta, dall'antichità all'alto Medio Evo, dall'Italia alla Francia, alle Fiandre e all'Inghilterra fino al lontano Oriente, l'umanità.

[Modificato da Soga 18/11/2005 19.16]

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