Il tormentato Matisse alla ricerca della luce

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vanni-merlin
00venerdì 23 giugno 2006 23:26
BASILEA
Il tormentato Matisse alla ricerca della luce

Marco Vallora

Aria. Il vuoto, dipinto. Il respiro delle cose. Il nulla fremente, che si dispone come colla vischiosa, indelebile intorno ai corpi, agli oggetti lappati, agli sfondi decorati: che sono più persone delle persone. Non stupisce che gli appunti sul taccuino (graffiati davanti all'emozione lenta e disorientante di questa mostra, che coinvolge turbando) abbiano richiesto uno stacco, una pausa, un intervallo bianco. Matisse è il pittore dell'aria e ha bisogno di aria, sempre. Come se dipingere fosse anche soffocare. Matisse, il pittore baudleriano dell'opera-precetto Luxe, calme et volupté, alla ricerca perenne di levità e felicità, è un artista che viene dalla malattia, non dimentichiamolo. Avvocato, scopre tardivamente la pittura durante una convalescenza.

Durante la sua vita difficile è spesso infermo ed impedito di dipingere. Da vecchio, bianco-barbuto come un fauno, opera disteso dal letto, con lunghe pennellesse scenografiche. O in carrozzina, sostituendo ai colori da tavolozza i papiers découpés già pre-tinti. È un artista del nero e della penombra, che ha bisogno perenne, che ha sete, febbrile, di luce: e chiede, dal letto della sua delibata degenza, che siano schiuse per sempre le finestre della salute. La pittura, per lui, è questo. Difficilmente si getta en plein air, tranne il periodo fauve di Colliure, accanto a Derain: preferisce dipingere la natura aperta, accecante, stando dentro il baldacchino protettivo della sua stanza-atelier. Meglio, stanza del via vai d'albergo, trasformata in istudio. Che si gonfia di luce come una spugnadi specchi e sfibbra le prospettive, ubriacandole. La luce è qualcosa di diverso dal colore, e spesso ingaggia con lui (lui, il colore... visto che qui tutto si personifica. Tranne le persone) delle battaglie grandiose, perdute. Dal risultato portentosamente incerto.

Non è vero che Matisse sia il pittore della facilità e della rilassatezza, come lui stesso ha sostenuto, in una frase fatale del 1909, che gl'ha invischiato addosso tanti equivoci: «Quel che sogno è un'arte di equilibrio, di purezza e tranquillità, senza soggetto inquietante per chiunque: un lenificante, un calmante cerebrale, qualcosa d'analogo a una buona poltrona, che lo rilassi dalle sue fatiche fisiche». Un sogno, forse: ma la realtà del dipingere è altro. Spesso, anche quando dipinge, e fa circolare interloquendo il colore, Matisse dipinge con i tentennamenti «sporchi» del carboncino, che dasempre rannuvola e tormenta la sua pratica grafica, qui presente in mostra in modo rilevante (ci sono oltre 170 opere: tra olii rarissimi o celebri, sculture ben accoppiate, stampe e disegni). Tanto Picasso è deciso, chirurgico, diretto, e «trova», tanto Matisse è tormentato, indeciso nella sua sprezzatura modernissima, torturato come un cieco dal bisogno di serenità anche pittorica: e «cerca», a quadro aperto, sofferente di felicità. Sin dai suoi esordi: in cui il Leitmotiv di questa rassegna ben delineata, tra interni e presenze di nudi-sculture, è già pre-destinatamente presente. In quel non-volto reclinato di Liseuse (pare un Hammershoi deprimentissimo) schermata di spalle, senza mostrarci i suoi tratti psicologici, a lasciar parlare piuttosto i ninnoli petulanti della stanza.

È impressionante registrare come, pur nella sua galoppante mutevolezza stilistica, dalle prime tele, in cui trapela l'allievo, sorprendentemente, di Gustave Moreau (ma guarda ancora di più al pastellare simbolista di Redon) sino alle ultime sublimi prove di essenzialità segnica, di Jazz e altri découpages galleggianti nel vuoto, Matisse è sempre fedele a se stesso. Lo ha teorizzato, del resto: «In fondo non si ha che un'unica idea, si nasce con lei, ci si vive tutt'un'esistenza con quest'idea fissa, la si fa respirare». Ecco: l'aria, il vuoto, l'odore infermierale della stanza. Se Rodin e Cézanne e Giacometti tendono al non-finito, per insoddisfazione caratteriale o concettuale, Matisse non finisce nel non-finito. Ma ci nasce e ci guazza e si illumina. Quando riesce a toccare il punto vertiginoso e lancinato del nonprocedere più.

È completamente diverso, il suo approccio tra forma e sfondo, figura e arabesco, costruzione e decorazione, rispetto agli altri grandi protagonisti delle avanguardie. Figlio dell'Islam (i suoi viaggi in Algeria e Marocco) iconoclasta, quasi (deciso a rinnegare i tratti psicologici dei volti delle sue modelle e a sostituirci come delle cornici vuote, dei vividi bianchi) collezionista accanito d'una «biblioteca di tessuti» ornamentali, folgorato dall'ieraticità delle icone russe, scoperte in casa Morozov, e dall'ornato moresco, Matisse muta radicalmente il cammino della modernità. Ridà al decorativismo una sua patente di purezza e di radicalismo, da compositore puro di ritmi colorati, che porta in superficie ogni illusione di profondità. Riduce, per dare più respiro. E torna alla semplicità essenziale della figura, per raggiungere una sua astrazione, che non ha nulla del pedante puritanesino delle avanguardie. Prime al traguardo. Lui sa essere «astratto» con l'indolenza d'un'odalisca senza volto. E intatta di mistero.


Matisse. Figure. Couleur. Espace.
Basilea. Fondation Beyeler
Orario lun- dom. 10-18 Mercoledì fino le ore 20.00
Fino al 23 luglio



da: www.lastampa.it/cmstp/rubriche/girata.asp?ID_blog=62&ID_articolo=185&ID_sezione=120&sezione=Mostra+della+s...

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