L'errata teoria del MALE MINORE dove se non rompi le regole non sei nessuno

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Caterina63
00venerdì 23 ottobre 2009 18:14
«Il male minore» di Eyal Weizman

Se non rompi le regole non ti danno retta




di Oddone Camerana

Oggi la trasgressione sembra essere transitata in chi rispetta le leggi. Ignorato, quest'ultimo, trascurato e reso invisibile dalla sua rettitudine, è un soggetto che non conta. Il suo stato di conformismo lo esclude dall'essere rappresentato.

Nella società che ci ha preceduto e che non è certo scomparsa, ma è coperta da una nebbiolina di anonimato e disinteresse - società della disciplina fondata sul tormento della colpa - trasgredire creava dei problemi per lo meno di coscienza. In questa prospettiva il divieto di drogarsi veniva riconosciuto in quanto vincolo e qualcuno ricorderà anche come, con un certo sprezzo per le debolezze umane, si affermava che le droghe capaci di creare distensione allora in voga fossero riservate a chi "se le poteva permettere". Così dicendo ci si riferiva sia alla disponibilità economica necessaria per acquistarle, sia, darwinianamente parlando, all'energia fisica e psicologica richiesta per non soccombere. Possibilità e dote che scremavano gli utilizzatori, rigettando i più deboli tra i vinti e fuori della cerchia dei privilegiati.

Le cose sono cambiate. Nella società della performance e della competizione che si fa avanti, società fondata sul tormento dell'inadeguatezza, trasgredire, nel senso di violare le leggi, sembra essere se non la norma, la pratica più sicura per riuscire nella vita. Una bella spinta a questa tendenza è data dalla massima costruita sul potere dei media secondo la quale "non esisti se non sei rappresentato". Non ci vuole molto per capire a cosa induce questo genere di morale. Una battuta che letta in filigrana dice che se non rompi le regole nessuno ti dà retta. E non c'è da stupirsi, con riferimento a un campo di applicazione diverso da quello delle droghe, che non ci sia recensione di opere d'arte contemporanea che non promuova l'abbinamento tra creatività e trasgressione. Principio che si estende ad altri settori come la moda o la cucina.

Un invito a trasgredire viene per altro lanciato anche dai rispettabilissimi e modestissimi parrucchieri di periferia che hanno colto il potere di quel mantra. Dunque non c'è scampo per chi rispetta le tradizioni.

Se questo modo di pensare trova applicazione da parte di chi si ribella a consuetudini innocenti o di chi rompe vecchi canoni artistici superati, a maggior ragione ha seguito nel campo dell'uso di droghe cosiddette euforizzanti. Il favore dei consumatori loro riservato sta nel fatto che la capacità di promettere il superamento delle inadeguatezze del caso sembra non subire smentite.
Si fa notare come a questo stato di cose già compromesso non venga certo in aiuto la pratica incoraggiata o tollerata che va sotto il nome della "riduzione del danno", una formula che ha giustificato e continua a giustificare gli esperimenti di droga libera o sotto controllo, esperimenti ben noti agli esperti del ramo e fonte di dibattiti tutt'oggi in corso.

In altre parole a far cadere l'ostacolo dei divieti rimasti in vita dalla società della colpa ha contribuito il principio della riduzione del danno di cui sopra.

Ora, e proprio in materia di tentativi di curare i danni prodotti da un veleno servendosi dello stesso veleno - materia a cui si ispira la pratica della riduzione del danno secondo il presupposto che si tratta solo di una questione di dosaggio - viene in soccorso il libricino di Eyal Weizman Il male minore (Roma, Nottetempo editore, 2009, pagine 99, euro 7). Un testo che non si occupa di droghe né di trasgressione, quanto della consuetudine secondo la quale collaborare con un male maggiore per ottenere un male minore è una formula di successo. Una consuetudine che risale alla notte dei tempi, già di dominio della magia, diventata poi materia della politica fino a fondare quel caposaldo della gestione del potere che va sotto il nome del principio della ragion di stato.

A partire dalla convinzione di cui riferisce sant'Agostino che "è meglio tollerare le prostitute nella società che rischiare l'adulterio" o "che è meglio uccidere un aggressore prima che questo riesca a uccidere un passante innocente", per arrivare alle guerre preventive o umanitarie di oggi volte all'attenuazione del male, non senza il bagaglio dei danni collaterali che le accompagnano e le azioni di antiterrorismo delegato per scarico di coscienza a contractors anonimi, la storia umana, compresa quella che si ispira al liberalismo, è costellata di episodi dettati dalla compromissione col male a fin di bene, ispirati a calcolare fin dove sia legittimo cedere al male, alla violenza e all'ingiustizia per ottenere sicurezza, pace e ordine. Dando un volto concreto al principio del totalitarismo del bene, diceva in proposito Stalin che "non si può fare un'omelette senza rompere un uovo".

Sennonché è proprio sant'Agostino che dice che il male minore non è permissibile perché viola palesemente il principio paolino del "non fare il male affinché venga il bene" (Romani, 3, 8). Un insegnamento che risale al messaggio dell'antropologia cristiana secondo la quale col male non si tratta a costo di morirne e verso le minimizzazioni con cui il male si presenta, siano esse anche forme di giustizia, non c'è che il rifiuto, lo stare fermi, la non collaborazione. Ciononostante, commenta Weizman, "la strada verso l'utopia (intesa come risultato di bene) è lastricata di mali minori".

Tra coloro che non si rassegnano a questa logica c'è il fondatore dell'Arsenale della pace. Facendosi interprete della nozione secondo la quale per non cadere nella trappola del male minore bisogna concentrarsi non tanto su cosa va fatto, ma su quanto non si debba permettere che venga fatto, Ernesto Olivero si muove operando dalla sede torinese del Sermig e da quella in Giordania e in Brasile, rispettivamente dell'Arsenale della speranza e dell'Arsenale dell'incontro. È insistendo su questa linea, diciamo di aggiramento logico del male, che combatte da anni la sua battaglia contro le droghe e incontra migliaia giovani a cui indica il pensiero secondo il quale è consumando stupefacenti che si diventa finanziatori di chi li commercia e che si scende a patti con il male.

Non soltanto, ma gli si regala (al male) se stessi rinunciando al bene ricevuto o sprecandolo definitivamente. Non è un mistero, fa presente inoltre Olivero, come per un semplice pallone da calcio e per i riconoscimenti di cui esso è capace di dare, si sia disposti a compiere notevoli sacrifici in termini di rinunce fisiche, psicologiche e di tempo. E cos'è allora il problema che trattiene dal sacrificarsi per ben altro che per un pallone da calcio quale certamente è una possibile riuscita nella vita, ma che le droghe mettono in pericolo?

Stando così le cose, è convinzione di Olivero che un "no" alla droga non può venire che dai suoi possibili utilizzatori i quali, nel venire a contatto con chi ne fa commercio, possono invece mirare alla loro conversione attuando così una condotta attiva e non da fuggiaschi.

Sono ormai noti i limiti incontrati in questa materia dal potere legislativo e dal potere esecutivo, istituzioni che anche facendo il loro dovere arrivano dove possono. L'insegnamento raccolto dalle riflessioni sul male minore consiste dunque nella constatazione di come per chiudere il cerchio magico di un possibile contrasto alle droghe ci si debba affidare, come è accaduto e sta accadendo col fumo, al biasimo sociale e non al suo contrario.

Si è detto che la trasgressione sembra oggi transitata in chi rispetta le leggi. Un paradosso, certo, ma che cesserà di incombere sulle nostre incerte valutazioni quando l'uso della droga perderà il fascino della sua ritualità segreta prodotta anch'essa dalla logica del male minore.



(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2009)
Caterina63
00mercoledì 22 settembre 2010 15:34

C'è vita nel movimento per la vita?

Non è un tema del quale solitamente ci occupiamo (non perché sia meno importante di quello liturgico, anzi), ma facciamo un'eccezione. Un articolo del nostro amico Francesco Agnoli, che vale come un grosso sasso in uno stagno. Certamente è vero che all'estero il movimento pro life inanella strepitosi successi di opinione: negli USA ormai la maggioranza dell'opinione pubblica sotto una certa età è divenuta contraria all'aborto, ribaltando i sondaggi dei sondaggi scorsi. E in Italia? Il testo integrale dell'articolo (qui riportiamo solo un estratto) è a questo link.


Il Movimento per la Vita in Italia è fermo. Ingessato. Quasi inesistente. Mi spiego meglio. Non che manchino persone valorose, coraggiose, con idee e buona volontà. Ci sono, qua e là. Neppure mancano volontarie e volontari attivissimi, straordinari, che rendono il loro servizio, ogni giorno, nei Centri Aiuto alla Vita, dando speranza e salvando molti bambini dalla morte. Quello che manca è un movimento culturale per la vita forte, che sappia intervenire, dire la propria nel dibattito pubblico, quando se ne parla, sui giornali, in televisione, nelle strade.

Chi lo ha mai visto? Si parla ormai da anni di bioetica, e il Movimento per la Vita in quanto tale dimostra la sua estrema debolezza. Perché? Perché in America, ma anche in altri paesi europei, il mondo pro life appare più attivo, dinamico, giovane? Anzitutto vi è un motivo di carattere generale: da troppi anni il mondo cattolico fatica a capire l’importanza di una battaglia per la vita. Già all’epoca della legge 194 e poi del referendum, il mondo pro life italiano era diviso, ma soprattutto, solo. Erano gli anni in cui buona parte delle gerarchie ecclesiastiche e del mondo cattolico “progressista” ritenevano inutile e perdente la battaglia. In cui vigeva l’idea secondo cui è meglio “cercare ciò che unisce piuttosto che ciò che divide”, che significò poi farsi da parte, per non disturbare. Per tanti anni nello stesso mondo cattolico certi temi sono stati tabù. Essere del Movimento per la vita significava rimanere emarginati, essere guardati come dei matti, residui del passato, non solo rispetto alla cultura radicale e di sinistra, ma anche nel mondo cattolico stesso.

Il concetto di “valori non negoziabili” non godeva buona stampa: tutto nel clima del post concilio permanente sembrava negoziabile, anzitutto a molti cattolici. Perché litigare su queste questioni “marginali”, si diceva? “Altri sono i problemi”…

Oggi che ci troviamo nell’inverno demografico più nero, forse qualcuno si ricrede…Oggi, grazie al referendum sulla legge 40, promosso dai radicali, e all’azione di personaggi come Ruini e Boffo, in campo cattolico, e Ferrara in campo laico, qualcosa sta cambiando…

Ma i problemi del Movimento per la vita italiano rimangono, e sono enormi. Mi permetterò di elencarne alcuni, anche se so che scontenterò molti, anche amici, che mi rimprovereranno di non aver capito, oppure di aver detto cose in parte giuste, ma da tener segrete, “tra di noi”. Eppure, dopo averle sentite e risentite, viste e riviste, a me sembra che occorra dirle. Oportet ut scandala eveniant, se gli scandali non sono fini a se stessi, ma servono a rilanciare un dibattito ormai sepolto, e a portare linfa nuova, vitalità nuova. Il primo di questi motivi interni è sicuramente una presidenza troppo lunga.

Lungi da me negare a Carlo Casini i suoi meriti. Non ritengo però possibile che certe cariche diventano quasi vitalizie, senza conseguenze per tutti! L’attuale presidente del Movimento è in carica da ben 20 anni, cioè dal lontano 1991. Le presidenze troppo lunghe, inevitabilmente, soffocano l’attività, paralizzano l’innovazione e la creatività. Anzitutto perché si crea intorno ad esse un nocciolo duro che tende a perpetuarsi e ad escludere nuove forze e nuove soluzioni. In secondo luogo perché anche la persona più brillante del mondo non può avere, dopo tanti anni, la voglia, lo slancio, le idee, il tempo, dei primi anni. Soprattutto se l’età avanza e le cariche, numerose, si sovrappongono. Soprattutto se colui che riveste quel ruolo, invece di delegare il più possibile, per creare sinergie e responsabilizzare nuove persone, accentra il più possibile.

L’altro problema della presidenza attuale è poi la sovrapposizione tra la militanza pro life e l’appartenenza ad un partito (sovrapposizione che per esempio Paola Binetti ha evitato, dimettendosi da presidente di Scienza e Vita prima di entrare in politica, o che si potrebbe comunque scongiurare dimettendosi dalla politica, qualora da lì si provenga, una volta eletti presidenti del MPV). In primo luogo, infatti, non sembra realistico poter svolgere nel contempo i compiti tanto gravosi di Presidente del Movimento per la vita italiano e di europarlamentare, a Bruxelles. In secondo luogo perché l’appartenenza ad un partito limita inevitabilmente la libertà d’azione e di parola che dovrebbe caratterizzare un incarico così delicato come quello di guida dei pro life italiani. Recentemente per esempio l’Udc, partito in cui milita Carlo Casini, si è schierato a fianco della Bonino piemontese, Mercedes Bresso, senza che la posizione del presidente del movimento per la vita risuonasse forte e sicura: non possumus! Analogamente Buttiglione, presidente dell’UDC, ha recentemente dichiarato che i pro life italiani si sarebbero sbagliati a prendere la posizione che presero nel 1981, senza che Casini contraddicesse pubblicamente il suo superiore di partito, al fine di tutelare l’onore di chi non ritiene assolutamente vere le parole del politico-filosofo-ondivago per eccellenza.

In terzo luogo l’appartenenza del leader del MPV italiano ad una fazione, limita la sua stessa capacità di manovra, che dovrebbe essere invece a 360 gradi: come chiedere un appoggio a destra e a manca, se colui che chiede è già schierato? In questo campo, purtroppo, le appartenenze politiche vengono spesso prima della battaglia per il bene e la verità.

Infine, l’ultimo inconveniente della sovrapposizione tra politica e presidenza del Movimento, sta nella mentalità che può (non che deve) venirsi a creare. Uno dei problemi principali del MPV italiano è infatti che ha cessato di portare avanti battaglie di testimonianza, culturali, capaci di attrarre ed educare i giovani agli altissimi valori del rispetto della vita. La battaglia pro life è divenuta quasi esclusivamente, con l’appoggio di qualche ecclesiastico molto politicante, un affare di politica e di parlamenti: incontri tra Casini, qualche vescovo e altri politici di alto rango. Senza coinvolgere più di tanto il Movimento stesso: “ce la vediamo noi”. In questi incontri, alla fine, si è spesso ragionato da politici: io cedo qui, tu cedi là…così di compromesso in compromesso si è dimenticato che alle nuove leve, alle generazioni che crescono, il Movimento non deve dare solo leggi che siano il “meno peggio possibile”, ma anche valori non negoziabili, verità complete per cui valga veramente la pena battersi. Il pontefice Benedetto XVI lo ha fatto capire in molte occasioni, e difficilmente certe posizioni del MPV oggi possono dirsi compatibili con documenti magisteriali assai chiari e ben poco “diplomatici” (vedi l’ “Evangelium vitae” e la “Donum vitae”)

Pensiamo al movimento pro life americano: è forte perché accanto alla strada della politica, che ci vuole, che non va trascurata, non cessa di dire tutta la verità, e nient’altro che la verità (almeno per un pro life). Invece in Italia accade che proprio nel Movimento per la vita questa mentalità abbia portato a dissociazioni mentali inconcepibili. Mi è capitato di sentire: “sì, è vero, hai ragione a dire così, ma ora è politicamente inopportuno dirlo, come ha spiegato bene Casini”! Portare la battaglia quasi solo nel campo della mediazione politica ha generato un ulteriore indebolimento: perché la mediazione politica la può perseguire soltanto qualcuno, soltanto chi rappresenta il movimento ai suoi vertici.

Ecco così immobilizzata la base, ma anche il resto della dirigenza! Mentre si consumavano mediazioni qui e incontri pre-parlamentari là, dibattiti col vescovo di turno e col politico di turno, quasi sempre ad opera di un solo interlocutore, il presidente nazionale, o qualche suo beniamino, il pro life medio non poteva che dirsi: “ed io che faccio?” E così il pro life di tutti i giorni, magari del Movimento da anni e anni, si è trovato quasi senza possibilità di agire, senza supporto. Lo dimostrano tantissimi fatti. Uno per tutti. In tanti anni dall’interno del Movimento per la vita non sono sorti né pensatori né opere pro life di rilievo! Anche i movimenti si sono fatti portatori sempre e soltanto delle stesse pubblicazioni, se possibile del presidente e solo sue. Non si sono valorizzati i giovani, non si sono valorizzate le penne abili, gli oratori interessanti e carismatici, con il risultato che alla fine girano sempre le solite, le medesime facce (o i più generosi, o i più “carrieristi”) . Eppure, compito della guida di un movimento è anzitutto creare spazi per altri, che possano proseguire la battaglia intrapresa. E’ creare una classe dirigente valida, il più possibile ampia e capace. Tanto altro ci sarebbe da dire, ma voglio concludere con il fatto che a mio avviso ha fatto traboccare il vaso: il continuo stillicidio di espulsioni dal Movimento (come se ci si potesse permettere di farlo!).

Negli anni ho visto lasciare il Movimento personalità e intelligenza troppo numerose e troppo importanti: Angelo Francesco Filardo, Maria Paola Tripoli, Mario Palmaro, e tanti altri della direzione nazionale! Ho visto molte persone che avrebbero potuto essere valorizzate per la loro intelligenza, farsi piano piano da parte, perché quasi si temeva facessero ombra [..]

Fonte: Il Foglio, 16/9/2010, via Libertaepersona



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riflessione mia:

Tema molto interessante e importante che seguo da diversi anni anche in qualità di Catechista....  
Nel mio piccolo posso dire che le motivazioni ben esposte da Agnoli ci riportano alla medesima reazione che l'Italia ebbe all'uscita della Humane Vitae di Paolo VI....non dimentichiamo che pubblicamente l'allora cardinale Albino Luciani, Patriarca di Venezia e futuro Pontefice, non fece mistero di dirsi, pubblicamente appunto, DISPIACIUTO per quella Enciclica... e che si attendeva egli stesso una APERTURA ai problemi della contraccezione... salvo poi,  attenzione, restare FEDELE ED OBBEDIENTE, alle richieste di Paolo VI a tal punto che fu costretto a chiudere la sezione della FUCI perchè "contestavano troppo" ed erano favorevoli a queste innovazioni IMMORALI...  
Ma intanto il fatto di aver detto pubblicamente di essere CONTRARIO E DELUSO all'Humane Vitae, senza dubbio portò molti cattolici a cercare dei compromessi...  
 
Altro aspetto segnalato appunto da Agnoli è che in Italia il problema, da parte dei Vescovi, è stato per troppo tempo ARGINATO...se non addirittura, sostengo, ostacolato.... Non dimentichiamo che quando molti anni fa il Movimento per la Vita si prodigò per fondare IL CIMITERO DEI BAMBINI ABORTITI, NESSUN VESCOVO, NEPPURE IL PAPA APPOGGIARONO E SOSTENNERO QUESTA INIZIATIVA...  
solo dopo molte battaglie e SUPPLICHE, tiepidamente e TIMIDAMENTE qualche vescovo, muovendosi in forma PRIVATA, cominciò a benedire quelle piccole salme deturpate dall'omicidio...  
 
il problema è che per LEGGE SOLO dopo il sesto mese c'è diritto alla sepoltura (bella cretinata, è per questo che fecero l'Unità d'Italia? ), di conseguenza, un Cimitero che seppellisca CORPI STRAZIATI DI 2 TRE, 4,5 MESI sarebbe una prova troppo schiacciante che stiamo parlando di UN OLOCAUSTO, DI OMICIDIO...una prova che porterebbe molte Donne-Mamme a porsi prima o poi delle domande che la società invece rifiuta...  
 
Si è anche detto che se una mamma vuole abortire(=uccidere ) il proprio figlio, "sarebbe DISUMANO chiederle di seppellire quel figlio".... queste parole furono dette da un vescovo una quindicina d'anni fa....  
Può sembrare una risposta OT la mia, ma non lo è.... molte Donne, VISITANDO IL CIMITERO DEI BAMBINI MAI NATI  (il più famoso si trova ad Agrigento ) si sono rese conto di quello che stavano per fare ed hanno rinunciato all'aborto...  
 
MANCA LA SENSIBILIZZAZIONE.... taluni vescovi hanno tentato di rimuovere il problema INFILTRANDO NELLE PARROCCHIE i gruppi del CNC i quali SONO OBBLIGATI A FARE FIGLI... più ne fai e più sei applaudito.... ma non era e non è certo questo il metodo migliore per aiutare le RAGAZZE MADRI a superare la cultura della morte e dell'idolatria della propria libertà, nè a far capire loro che un figlio NON CI APPARTIENE, ma è DONO.... un dono che si riceve anche quando subentra una violenza, una malattia, perfino un divorzio....i figli restano UN DONO AL DI SOPRA DI TUTTO...  
 
Infine occorre dire che in certi spazi il MPV si è troppo politicizzato... almeno in Italia, e credo che questo abbia comportato spesso diffidenza.... come appunto è stato ben evidenziato nell'articolo...per fare un esempio leggete questa storia:  
GIANNA, SOPRAVISSUTA ALL'ABORTO RACCONTA LA SUA STORIA  
è una ragazza Cattolica e fa parte ovviamente del MPV in America.... ecco, questo è ciò che manca da noi in Italia, se il MPV in Italia non si muoverà a nuove iniziative, sarà difficile ottenere successi perchè prima che reagire politicamente oramai è necessario agire SULLE COSCIENZE RIEDUCANDOLE ALLA VITA... il resto verrà da se...  
Wink

Si legga anche qui:
In certi casi la contraccezione è lecita? NO! (stupenda catechesi di padre Angelo O.P.)



Caterina63
00giovedì 30 settembre 2010 20:45

La Dottrina sociale segno di contraddizione dentro e fuori la Chiesa


Pubblicato il Secondo Rapporto sulla Dottrina Sociale della Chiesa


di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 29 settembre 2010 (ZENIT.org).

- “Il mondo accetta la Chiesa e il cristianesimo quando questi parlano solo il linguaggio del mondo, li accetta di meno quando parlano, principalmente, il linguaggio di Cristo”.

Così mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, ha aperto sabato 25 settembre la presentazione del Secondo Rapporto sulla Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato da Cantagalli,

Secondo il presule, “la Dottrina sociale della Chiesa è segno di contraddizione”, ed ha spiegato: “una Dottrina sociale della Chiesa intesa come una proposta laica con cui dialogare con il mondo, viene accettata, perché rischia di essere innocua. Ma una Dottrina sociale che considerasse il Cristianesimo non solo utile ma anche indispensabile per la costruzione di una società veramente umana, come dice il n. 4 della Caritas in veritate, sarebbe combattuta fuori e dentro la Chiesa”.

Per monsignor Crepaldi ci sono due modi di intendere la Dottrina sociale della Chiesa: “come etica condivisa per accompagnare il mondo oppure come strumento per aprire un posto di Dio nel mondo”, e quando viene intesa in questo secondo modo – come uno strumento per aprire un posto di Dio nel mondo – “c’è una reazione del mondo e c’è anche una reazione nella Chiesa. Il mondo non accetta e non accettano nemmeno tanti nella Chiesa”.

A questo proposito il Rapporto documenta le tante persecuzioni anticristiane, presenti ancora nel mondo, che riguardano anche l’Occidente e in particolare l’Europa e l’America Latina.

In questo contesto l’Arcivescovo di Trieste ha menzionato molti casi di impedimento all’esercizio pubblico della fede cristiana in Inghilterra, la legislazione fortemente contraria alla vita e alla famiglia in Spagna, l’approvazione della legge per l’eutanasia e il suicidio assistito in Olanda, Belgio e Lussemburgo, la grande consultazione per la riforma della legge sulla bioetica in Francia che promette poco di buono.

E poi i casi drammatici della bambina di Recife e di Eluana Englaro che sono stati utilizzati in America Latina e in Italia per “screditare la Chiesa e per aprire nuove brecce nella coscienza popolare a favore dell’aborto e dell’eutanasia”.

Rientrano in questo clima ostile anche gli attacchi al Pontefice Benedetto XVI quando si è espresso contro “l’utilità del preservativo nella lotta all’Aids e per la remissione della scomunica ai quattro vescovi ordinati da mons. Marcel Lefebvre”.

La tentazione di andare con il mondo, piuttosto che riportare Dio nella società ed essere testimoni di Cristo, è presente anche all’interno della Chiesa.

Su questo punto monsignor Crepaldi ha ricordato la lunga battaglia contro la riforma sanitaria del Presidente Obama condotta dai Vescovi statunitensi. “Non contro la riforma in sé, né contro la sua necessità, ma contro alcuni aspetti della legge di riforma che prevedevano finanziamenti federali per l’aborto e non permettevano un adeguato esercizio del diritto all’obiezione di coscienza”.

“E’ noto però – ha precisato il presule - che non tutti i vescovi erano su questa linea e che dentro il mondo cattolico americano, molti settori degli Istituti religiosi e delle associazioni sanitarie cattoliche hanno invece fatto propaganda a sostegno della legge, in aperto contrasto con le indicazioni dei vescovi”.

“Niente può giustificare un sostegno all’aborto, - ha sottolineato monsignor Crepaldi - ma molti cattolici americani hanno pensato che una maggiore assistenza sanitaria ai poveri lo potesse giustificare e hanno messo da parte l’indicazione dei vescovi”.

Anche sui temi ambientali, l’Arcivescovo di Trieste ha espresso un commento chiaro.

“Lungo il 2009 – ha affermato - un po’ in tutto il mondo si è molto discusso del cambiamento climatico. Organismi dell’ONU hanno spesso pontificato su questo argomento, pur non avendone l’autorevolezza come è stato ampiamente dimostrato in seguito; sono apparsi molti Rapporti internazionali sul cambiamento climatico e non c’è stata quasi Conferenza episcopale che non abbia pubblicato un documento su questo tema, compresa la Comece, la Commissione degli episcopati dell’Unione Europea”.

“In molti casi, però – ha osservato –, si è trattato di un acritico accomodamento alle mode culturali del momento, un tentativo di andare d’accordo con il mondo dicendo quello che il mondo vuole sentire, come se l’emergenza pastorale primaria fosse di mettere i pannelli solari sulle chiese o attuare la raccolta differenziata”.

“Anche in questo caso – ha rilevato - abbiamo visto una impostazione più completa e fedele alla totalità del magistero sociale della Chiesa, ed un’altra molto più riduttiva e sociologistica, che intercettava il diffuso sentire comune, spesso ideologicamente caratterizzato”.

Monsignor Crepaldi ha fatto notare come anche nella stessa ricezione dell’enciclica “Caritas in veritate” ci sono almeno due tendenze all’interno del mondo cattolico.

“Vaste aree dei teologi cattolici e delle università cattoliche – ha precisato - non accettano la linea insegnata da Benedetto XVI e continuano a percorrere sentieri teologici parziali o addirittura confutati e dichiarati negativi dal magistero. Ci sono università nelle quali una tesi di dottorato sul pensiero di Ratzinger è vista con sospetto”.

L’Arcivescovo di Trieste ha concluso ribadendo che “la vocazione dell’uomo è, una sola e non ci si può dividere nella concezione teologica su cosa significhi difesa del creato e mantenere la stessa fede nel Creatore. Per lo stesso motivo per cui la Dottrina sociale della Chiesa è educazione alla fede, essa diventa diseducazione alla fede quando non vissuta ed applicata nel giusto spirito”.

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